Libri: “Le mani sull’amore”
napoli. libri. teatro. culturascritto da napoligaypress | 24 Febbraio 2011 | condividi su facebook
Caro Lucio,
ti scrivo dal reparto psichiatrico dell’ospedale Fatebenefratell, a Roma. Sono qui da tre settimane. E’ un dicembre umido e pesante. Lo scirocco, che ingombra il cielo di bianca nuvolaglia, si insinua fin dentro le stanze e nei corridoi, e rende i pazienti inquieti e come spaventati. Mi è stata assegnata l’unica camera singola dell’intero padiglione, dove godo di un relativo isolamento e di qualche comodità. Posso accendere e spegnere le luci quando voglio, potrei ascoltare la musica nelle ore di insonnia, ho un bagno tutto per me. Il cellulare invece mi è stato trattenuto: i medici preferiscono che io abbia meno contatti possibile. La televisione c’è ma non la guardo.
L’agitazione dei malati ha un andamento che si ripete pressoché regolare ogni giorno: violenti picchi al mattino e nel primo pomeriggio. Poi ristagna una calma minaccosa, cui segue, più tadi, un crescere dell’ansia che culmina in manifestazioni di rabbia o vera e propria disperazione alla sera. A quel punto, intorno alle otto, tutti i degenti tranne me vengono sedati e nel giro di un’ora si placa il loro andirivieni, furioso o strascicato, da un capo all’altro del corridoio. Cadono le grida, i pianti, i borbottii, le litanie, le risa, i lamenti. E l’intero reparto piomba in un sonno drogato fino alle sei del mattino dopo.
La notte, dunque, sono solo e al massimo posso scambiare qualche parola con l’infermiere di turno, che decide se è il caso di darmi della gocce di En per placare l’affanno, oppure fare un’iniezione di Farganesse per aiutarmi a dormire. Ma si tratta sempre di un sonno breve e torbido, che non riesce a liberare la mente e il cuore dai brutti pensieri che m’ingombrano.
Tu – è naturale – sei il primo e più invasivo. Forse per la crudeltà e la spietatezza con cui ti sei comportato negli ultimi tempi, ho l’impressione di non amarti più. Ma temo sia, appunto, solo un’impressione.
Una grande finestra si affaccia sul Tevere, e passo ore a fissare l’acqua che va. E’ sporca e fangosa ma il rumore, dopo che le piogge hanno fatto salire il livello, è appena un fruscio: la corrente non trova ostacoli. Guardo i flutti e tento di scaricare in quell’acqua anche la melma che ho dentro. Di tanto in tanto alzo gli occhi ai bastioni che delimitano il lungofiume davanti alla sinagoga. Il traffico non si ferma del tutto nemmeno nelle ore più tarde della notte. Una fitta di nostalgia mi ricorda quando anch’io passavo di lì con la mia Cinquecento. Facevo l’assistente per Alighiero Boetti, che aveva lo studio a Santa Maria in Trastevere: è stato là che ho imparato il mestiere.
Un’altra fitta mi porta all’Arno. In maggio, un giorno sei venuto a Firenze, e siamo usciti a passeggiare. Eri vestito di chiaro. Ti donava, ti faceva più luminoso. Ci siamo incamminati verso il centro. Arrivati al fiume, mi sono affacciato al parapetto: un renaiolo spingeva la sua barca sul liquame stagnante. Ti ho chiamato a guardare. Stavamo vivendo i giorni più felici dell’amore, quelli che passano come il vento, non ancora sfiorati dal sesso, solo tenerezza e allegria – eppure, quando ti sei stagliato contro il pulviscolo del tramonto, ho saputo con certezza che ti avrei perduto e che, ancora forse senza saperlo né volerlo, mi stavi già ingannando.
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