Molte persone non eterosessuali sono costrette a vivere in esilio, o forse si sentono costrette a farlo per motivi molto personali. Ancora oggi, nel nostro Paese, esistono posti in cui non puoi essere omosessuale. Per questo, in tanti abbiamo sentito di dover abbandonare i luoghi in cui siamo nati e cresciuti, trasferendoci in città più grandi e lontane.
Il punto è che ovunque andiamo, il nostro passato viene con noi: il luogo in cui siamo nati e le persone con cui siamo cresciuti ci seguono, anche da lontano. Scappiamo via dalle nostre famiglie, dai nostri compagni di merenda, da quelle convinzioni bigotte e provinciali che tanto ci hanno fatto soffrire ma che restano inchiodate nella nostra mente, a prescindere dalla città in cui ci trasferiamo.
Quando usciamo dalla nostra famiglia, quando abbandoniamo il paesello in cui siamo cresciuti, iniziamo il nostro cammino verso la nostra personale autorealizzazione in un posto nuovo, in cui ci sentiamo più al sicuro. Ci sentiamo come se avessimo vissuto in una gabbia chiusa e senza ossigeno per una vita, e adesso finalmente possiamo iniziare a respirare.
Sentirci rifiutati, e in un certo senso espulsi durante gli anni della preadolescenza e dell’adolescenza, ci ha lasciato non poche lacune in termini di capacità relazionali e sociali. Tuttavia, in una nuova città, non di rado incontriamo chi come noi ha dovuto o voluto optare per l’esilio, perché a casa, in famiglia, se non sei eterosessuale, per te non c’è posto.
È così che impariamo a empatizzare con il dolore altrui, ritrovando nelle storie e nelle biografie di altri non eterosessuali come noi la nostra stessa sofferenza. Avendo vissuto sulla nostra stessa pelle la discriminazione e la cattiveria della gente, impariamo coltivare la solidarietà, il rispetto, la condivisione. Poi, certo, incappiamo anche in qualcuno che soffre del “complesso dell’ape”, come lo definisce lo psicologo e attivista gay spagnolo Gabriel J. Martín: quelli che si credono regine ma sono poco più che insetti. A queste persone la propria sofferenza non ha insegnato granché e, vivendo una vita tutt’altro che serena, trovano sollievo nel rovinare la vita al prossimo con battute al vetriolo, offese taglienti e cattiverie gratuite.
Le difficoltà e il dolore che abbiamo vissuto da piccoli a causa del nostro orientamento sessuale dovrebbero averci insegnato un minimo di resilienza, compassione, empatia. Tutta la sofferenza vissuta in prima persona per qualcosa che non dipendeva e non dipende da noi deve insegnarci a essere persone migliori. Altrimenti, poco importa dove esiliamo: se la sofferenza ci ha reso cattivi, se ci ha fatto diventare come chi ci ha fatto del male, allora significa che l’abbiamo solo sprecata.
Alessandro Cozzolino, life coach