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Il caso di Elena riapre il dibattito eutanasia in Italia

È morta da sola Elena, donna veneta di 69 anni affetta da una grave patologia oncologica in fase terminale. Si è dovuta recare in Svizzera, senza che ad accompagnarla potessero essere la famiglia o gli affetti più cari. Questo perché Elena ha dovuto esercitare un diritto che lo stato italiano ancora non garantisce, ovvero quello di decidere liberamente del proprio fine vita.

A riaccendere la polemica è però soprattutto il fatto che Elena, pur terminale, non dipendesse da sistemi di supporto vitale. Era quindi impossibilitata ad accedere alle pratiche di sedazione profonda e morte volontaria che sono attualmente previste dalla legge italiana, tornate alla ribalta nelle ultime settimane dopo i casi di Fabio Ridolfi e Antonio La Forgia.

Proprio per questo motivo non solo la decisione di Elena non trova posto nella legislazione italiana, ma anche il semplice atto di accompagnarla in Svizzera diventa penalmente perseguibile, motivo per cui la donna non ha potuto contare sulla presenza della famiglia. Ad accompagnarla e a seguirne la vicenda su stampa e social è stato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che ora rischia fino a 12 anni di carcere.

Il fine vita in Italia tra vuoti normativi e leggi a metà

Per quanto i termini “eutanasia“, “suicidio assistito”, “accanimento terapeutico” ritornino periodicamente alla ribalta nel dibattito pubblico italiano, non sembrano trovare adeguato spazio nelle aule parlamentari. I diritti sul fine vita in Italia sono infatti ancora da conquistare a suon di sentenze e casi mediatici.

In particolare, soprattutto dopo l’annullamento del referendum di iniziativa popolare, si è di fatto fermi a quanto stabilito a seguito del caso DjFabo. Il sistema italiano infatti individua una serie di requisiti che rendono ammissibile una sospensione dei sistemi di supporto vitale accompagnata da sedazione profonda, come previsto anche da un disegno di legge attualmente ancora in fase di approvazione. Questo sistema non si applica però a tutti quei soggetti, come Elena, la cui sopravvivenza non dipende da sistemi di supporto, la cui sofferenza non viene giudicata tale da poter garantire loro di esercitare il diritto a morire senza dolore.

Come emerso anche durante l’assemblea dell’Associazione Luca Coscioni tenutasi ad Aprile, il disegno di legge crea di fatto una discriminazione tra persone malate e di fatto non tiene conto di una visione globale della malattia e della sofferenza. Decide, di fatto, chi ha diritto di morire con dignità e per libera scelta e chi invece “non soffre abbastanza”.

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Un diritto da garantire

Ci si trova quindi di fronte all’ennesimo caso di una decisione che dovrebbe essere individuale e garantita di diritto che diventa un caso mediatico. Perché in fondo di diritto ancora da garantire si sta parlando.

Si ritorna quindi di nuovo a dover parlare di autodeterminazione e soprattutto di autodeterminazione dei corpi e delle soggettività disabili. Perché non può essere che abilista uno stato che non riconosce le decisioni autonome individuali e che si frappone decretando “chi soffre abbastanza” e chi no.

La questione rimane ancora aperta, tra le pagine di giornale, nelle aule di tribunale e parlamentari. E tante esistenze rimangono sospese nel limbo normativo, ancora in attesa che lo stato italiano garantisca loro un diritto che dovrebbe essere basilare, ovvero di morire con dignità e accompagnate dai propri affetti più cari.

Un diritto che, purtroppo, ad Elena non è stato garantito.

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Fonti: Il Fatto Quotidiano; Il Fatto Quotidiano; Associazione Luca Coscioni

 

Ziggy Ghirelli