Il bullismo è una piaga che molti (troppi) di noi conoscono molto bene. E non certo perché ne hanno sentito parlare, ma perché l’hanno subita in prima persona. C’è da chiedersi come sia possibile che ancora oggi un omosessuale sia vittima di bullismo e questo, lo sappiamo, accade in un contesto scolastico come in un ambiente di lavoro. Quotidianamente. Il bullismo non va confuso con uno screzio, con una lite, con uno scontro occasionale o con un colorito e acceso scambio di idee. Il bullismo è un modus operandi che viene adottato dal bullo di turno e viene perpetrato nel tempo seguendo schemi molto precisi. Ogni giorno la vittima, prima ancora di incontrare il bullo e averci a che fare, sa perfettamente cosa lo aspetta e sa che dovrà, molto probabilmente, sopportare e soccombere.
Ma il bullismo, esattamente, quando finisce? Perché se prendiamo ad esempio un contesto scolastico, una volta terminati gli studi (e quindi finita la convivenza forzata tra bullo e bullizzato), allora il problema dovrebbe essere risolto. Dovrebbe, appunto. Perché la vittima, purtroppo, deve poi fare i conti con gli strascichi che il bullismo lascia dietro sé e, spesso, questi segni sono cicatrici perpetue che, talvolta, non si rimarginano mai completamente. Da un punto di vista psicologico, la vittima inizia in età precoce a sviluppare stati d’ansia che non dovrebbero essere considerati accettabili. L’immagine di sé e l’autostima ricevono durissimi colpi che, tristemente, deformano irrimediabilmente la realtà delle cose. E tutto precipita. Squilibri di qualsiasi tipo sono dietro l’angolo. Lo spettro più buio e spaventoso che si aggira nell’animo di una vittima di bullismo è quello della depressione. E chi cade in questa trappola è costretto, suo malgrado, a fare i conti con i propri mostri, prendendo contatto con la parte di sé più intima e torturata, obbligandosi a guardare con attenzione lo scenario tetro e devastato che i bulli hanno lasciato al loro passaggio.
Va detta una cosa, non importante, ma fondamentale: di depressione si parla poco e se ne parla male. La depressione, ancora oggi, viene considerata alla stregua di uno stato d’animo passeggero, di una settimana un po’ storta in cui nulla sembra andare per il verso giusto. La depressione non è tristezza e dobbiamo finalmente abituarci a chiamare le cose con il loro nome: la depressione è una malattia che va curata e non c’è vergogna alcuna che si debba sentire davanti a questa diagnosi. E’ successo. Non per colpa nostra. E’ successo e basta. E ci si deve adoperare per parlare con il proprio medico, con uno psicologo, con uno psichiatra per affrontare questo mostro, perché di questo si tratta. E come qualsiasi altra patologia va affrontata accompagnati da chi di dovere. Sia chiaro che la depressione non è una piaga che colpisce solo la comunità LGBT+, ma guardando statistiche e studi è lampante che la nostra comunità corra un rischio decisamente superiore di inciampare in questo male. E il bullismo, probabilmente, è stato un potente ed efficace fertilizzante affinché depressione, ansia e panico trovassero la porta aperta e un festone che recita “welcome!”
Quali sono le sensazioni che può provare un depresso patologico quando vive nella piena consapevolezza che il suo male arriva (in toto o in parte) dalla sua condizione pregressa di bullizzato? Come facciamo a convivere con l’idea che qualcosa di così feroce sia un lascito non richiesto da parte di persone delle quali eravamo certi esserci liberati? Come si può trovare la serenità quando, sullo sfondo, c’è un’ingiustizia dolorosa come il bullismo? Probabilmente ogni individuo che si è trovato a vivere questa realtà vive e reagisce a suo modo. Ma questo è un mondo sommerso del quale non si parla facilmente e che andrebbe esplorato e, con la giusta e doverosa sensibilizzazione verso scuole e famiglie, evitare che altri futuri adulti possano vivere lo stesso dramma. Un modo per iniziare, non solo per la comunità LGBT+, ma per tutti quanti, sarebbe scegliere meglio le parole ed evitare di utilizzare la parola “depressione” e i suoi derivati quando non ce n’è bisogno. Quando arriviamo in ufficio e la nostra collega, reduce da un week end un po’ fiacco, ci dice “sono depressa” involontariamente altera il significato di quella parola. E, altrettanto involontariamente, lacera il suo interlocutore che ha passato lo stesso week end chiuso in casa, schiacciato dal panico e impossibilitato anche solo a stare alla luce del sole. La depressione è questo: un mostro che divora ogni cosa. Così come lo sono altre patologie come anoressia e bulimia e qualsiasi altro disturbo del comportamento e della personalità. Abbiamo ancora tanto da imparare. E dobbiamo far sapere a tutti coloro che oggi si trovano nel centro del loro incubo, che se ne esce. E qualora ci fossero conseguenze postume come quelle elencate qui sopra, si può far fronte anche a quelle. Senza paura. Quanto sarebbe bello, utile e prezioso ascoltare le storie di chi ha avuto un iter uguale o simile a questo, creando esempi da seguire e allontanando l’idea e la sensazione più dolorosa di tutte: l’illusoria certezza della solitudine.
- Matteo Spini
- 29 Maggio 2020
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