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Transfobia: la testimonianza shock di Victoria Wankinson

Transfobia: la testimonianza shock di Victoria Wankinson. Giusto questo inizio mese la make-up artist e beauty consultant ha portato la sua testimonianza su Instagram. Vediamola insieme.

Un controllo medico che si trasforma in trauma

Andare a fare un semplice prelievo del sangue non dovrebbe mai diventare un’esperienza destabilizzante. Eppure è ciò che è accaduto a Victoria Wankinson, make-up artist e beauty consultant di 23 anni, che ha deciso di raccontare pubblicamente quanto le è successo. Presentatasi per degli esami di routine, è stata accolta da un’operatrice che, prima ancora di indossare i guanti o avviare la procedura, le ha posto una domanda diretta e invasiva: “Sei un uomo o una donna?”. Un interrogativo che, in un contesto sanitario, suona già come una violazione della privacy e dell’etica professionale, e che rivela quanto la transfobia e i pregiudizi possano insinuarsi persino negli spazi in cui dovremmo sentirci più tutelati.

Transfobia normalizzata: quando le parole fanno male

Il racconto di Victoria mette in luce non solo un comportamento inadeguato sul piano igienico e professionale, ma soprattutto un atteggiamento intriso di transfobia. L’operatrice, durante il prelievo, ha iniziato a parlare della propria nipote transgender con toni violenti e minacciosi, arrivando a dichiarare che “lo ammazzerebbe” per aver intrapreso un percorso di transizione. Una simile affermazione, rivolta a una paziente in una situazione di vulnerabilità fisica ed emotiva, non è soltanto una mancanza di tatto, ma un vero e proprio abuso verbale che contribuisce a creare un clima ostile verso chiunque appartenga o sostenga la comunità LGBTQIA+.

La paura di reagire e il potere sbilanciato

Durante il prelievo, Victoria si è trovata in una condizione di impotenza. Come lei stessa racconta, una parte di sé avrebbe voluto rispondere e ribattere alle parole dell’operatrice, mentre un’altra si rendeva conto che la donna in quel momento aveva “il potere” su di lei, con un ago conficcato nel braccio e il controllo della procedura medica. È un aspetto cruciale: la transfobia non agisce solo a livello sociale o culturale, ma sfrutta spesso rapporti di potere asimmetrici, nei quali la vittima non può sentirsi libera di difendersi. Questo genera un doppio trauma: non solo subire insulti e violenze verbali, ma anche sentirsi bloccati, incapaci di reagire.

Transfobia e famiglia: il dramma di una nonna che rifiuta la nipote

Nelle parole dell’operatrice sanitaria emerge un quadro familiare segnato da incomunicabilità e odio. La donna ha raccontato a Victoria che la nipote, una giovane ragazza trans, non le rivolge più la parola da quando ha manifestato la volontà di intraprendere un percorso di affermazione di genere. L’operatrice ha parlato della mastoplastica additiva della nipote come di un evento “inaccettabile”, mostrando totale mancanza di empatia. Victoria, con grande lucidità, ha sottolineato quanto sia doloroso per una nonna non avere più contatti con una nipote, cercando di riportare il discorso su un piano umano. Ma il punto centrale resta: la transfobia distrugge i legami familiari, incrina rapporti affettivi e genera solitudine.

La solitudine delle vittime di transfobia

Terminato il prelievo, Victoria ha raccontato di essere uscita dall’ambulatorio e di aver pianto, completamente scossa dall’esperienza. Non si tratta solo di una brutta giornata: è il segno di quanto possa essere destabilizzante trovarsi costretti ad ascoltare discorsi carichi d’odio senza possibilità di fuga. È l’ennesima dimostrazione che la transfobia non si manifesta soltanto con aggressioni fisiche o insulti espliciti sui social, ma anche con discorsi normalizzati e violenti che colpiscono le persone direttamente e indirettamente, lasciando ferite invisibili ma profonde. In questa occasione si è trattato di una minaccia carica d’odio e violenza. Domani queste parole dove condurranno questa nipote? E come si può insegnare ad una donna adulta l’effetto devastante del suo pensiero transfobico?

Transfobia e sanità: una questione di sicurezza e diritti

Il racconto di Victoria solleva una questione urgente: quanto è sicuro per le persone LGBTQIA+ accedere ai servizi sanitari? Quando chi dovrebbe tutelarti si permette di farti domande inappropriate o di esprimere odio nei confronti di chi vive percorsi di transizione, viene minata la fiducia nelle istituzioni sanitarie. Non si tratta soltanto di episodi individuali, ma di un problema sistemico: la mancanza di formazione e sensibilizzazione del personale sanitario alimenta la transfobia e scoraggia le persone dal prendersi cura della propria salute. È un fallimento che non possiamo permetterci. Ne abbiamo già discusso insieme in un mio precedente articolo, raccontando una situazione che mi ha visto coinvolto personalmente.

La resilienza come risposta alla transfobia

Nonostante il trauma, Victoria ha trovato la forza di raccontare la sua esperienza sui social. Con un video su Instagram ha dato voce non solo al proprio dolore, ma anche a quello di tante persone che vivono situazioni simili ogni giorno. Condividere significa rompere il silenzio e denunciare, ma anche creare connessione e sostegno. La sua testimonianza diventa così un atto politico, un gesto di resistenza contro la transfobia, dimostrando che la visibilità può trasformare il dolore individuale in consapevolezza collettiva. I commenti sotto al suo racconto, però, riassumono la situazione odierna in cui viviamo. “quante storie quanto vittimismo inutile usatelo il cervello“, ne recita uno. O ancora: “Sarà vera sta cosa???? Ormai ci si inventa di tutto pur di fare video“. E infine: “Mi spiace, sembri un ragazzo intelligente ma, ma dimmi quali sono le motivazioni che ti portano a sfogarti in un video?“.

Non è un caso isolato: la transfobia quotidiana

L’episodio vissuto da Victoria non è un’anomalia, ma l’ennesima conferma di quanto la transfobia sia diffusa nella quotidianità. Dai commenti in strada alle discriminazioni sui luoghi di lavoro, fino agli episodi negli ospedali, il pregiudizio contro le persone trans e le loro famiglie è ancora radicato e spesso giustificato come “opinione personale”. Ma quando queste “opinioni” mettono a rischio la salute, la dignità e la sicurezza di chi si affida a un servizio, non possono essere più tollerate. Raccontare questi fatti significa riconoscere che il problema è sistemico e va affrontato con urgenza. Eppure le nostre priorità sono sempre indirizzate verso problematiche inesistenti. Come la legge tanto discussa sul non utilizzare i termini “burger” o similari per prodotti vegetali. Un vero cataclisma sociale, giusto?

Trasformare il dolore in consapevolezza collettiva

La storia di Victoria Wankinson è un monito: la transfobia non è un concetto astratto, ma una realtà che ferisce, isola e traumatizza. Eppure, grazie alla sua voce e al coraggio di condividerla, diventa anche occasione di riflessione. Cosa possiamo fare come società per prevenire che episodi del genere accadano ancora? La risposta passa attraverso l’educazione, la sensibilizzazione e un impegno concreto delle istituzioni. Perché nessuno, mai, dovrebbe trovarsi a piangere fuori da un ambulatorio dopo un semplice prelievo del sangue. E questo è solo uno dei centinaia di casi italiani di transfobia. Per fortuna Victoria è in salute, ma questo dolore lo porterà sempre dentro di sé. Quanto è giusto subire violenza di questa tipologia in quello che dovrebbe essere un luogo sicuro?

La mia solidarietà e vicinanza vanno a Victoria e alla malcapitata nipote. Continueremo a lottare per i vostri, i nostri diritti mancati.

Aeden Russo

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