Si chiama Gonzalo Orquín, è un giovane pittore di successo e l’ho intervistato nella sua casa nel centro di Roma dove vive con il compagno.
Suono alla porta e mi accoglie con un sorriso timido ma dall’aria soddisfatta. É un bel ragazzo, Gonzalo. Ha gli occhi chiari e il sorriso buono. Indossa una felpa inzaccherata di colori a olio, ma non c’è puzza in casa nonostante abbia appena terminato una lezione di pittura. Si congeda dal suo allievo, il tempo di una coca cola e iniziamo la nostra intervista sul sofà.
L’arredo di casa è un sapiente mix di elementi di antiquariato – busti, pale d’altare, ceramiche déco, specchi barocchi – e oggetti contemporanei, abbinati tra loro con gusto e stile.
Allora Gonzalo, vorrei iniziare con quelle domande che si fanno alle pop star, per cui dicci di te, di dove sei, cosa ami mangiare, cosa guardi in tv e che musica ascolti.
Benissimo!
Sono nato e cresciuto a Siviglia il 26 gennaio 1982, nella città di Velasquez e Murillo due pittori fondamentali per la mia formazione personale e artistica.
Vuoi sapere anche cosa mi piace mangiare, giusto? Amo le alici fritte e il gazpacho.
Amo la musica sopratutto la classica e l’opera, da bambino ho frequentato il conservatorio per 5 anni. Ma in quanto spagnolo ho anche un’anima festaiola per cui mi piace molto anche la techno e l´elettronica.
Restiamo sul facile, hai un colore preferito?
(Ci pensa tanto). Non saprei, oggi il mio colore preferito è il giallo di cadmio ma In realtà amo tutti i colori e amo quelli che al momento mi ispirano.
Noto che non hai la tv, come mai? Infatti, non l’abbiamo, o meglio, non l’abbiamo mai installata, tanto che il mio compagno stasera è con amici a vedere il Festival di Sanremo, di cui va matto.
Non glielo lascio guardare dal mio pc. A me fa abbastanza schifo Sanremo (mi dice sorridendo, ndr).
Ma non sono certo un tipo snob, solo, non essendo italiano, non riesco a farmi contagiare dalla febbre sanremese. Ma amo le serie queer, e non solo, di Netflix. Ora sto guardando Pose, tuttavia se me lo chiedessero accetterei anche di partecipare a un reality (ride).
Sembri una persona positiva, cosa ti rende felice?
Gli affetti sono la cosa più bella della vita.
Da piccolo mi bastava che mio fratello, più grande di me di 14 anni, mi portasse con lui a fare cose “ da grandi”, andare in moto, fare commissioni e mi sentivo felice. Poi, ovviamente, le arti. I concerti dove vado spesso, le mostre, viaggiare, tutto ciò che la vita ci offre di bello.
Continuerò con domande marzulliane col tuo permesso.
Cosa ti piace della vita e cosa no?
Le persone che mi circondano e la fine di tutto, la morte.
Ti interessa la politica?
Non troppo, anche se con gli anni sento che dobbiamo lottare se vogliamo cambiare le cose, e aiutare anche gli altri. Non possiamo ignorarla. Tuttavia sono molto preoccupato dall’avanzare delle destre. Persino persone a me molto care in Spagna, hanno votato Vox, il partito franchista, omofobo e xenofobo, l’equivalente spagnolo di Fratelli d’Italia.
A questo proposito, cosa pensi di chi all’interno di Fratelli d’Italia ha recentemente dichiarato che occorre concentrarsi sull’omofobia invece che fare i Gay pride?
Il gay pride è nato quando una trans di colore decise di ribellarsi con un mattone alle angherie di un poliziotto. Sono convinto che ognuno debba essere libero di manifestare il proprio essere come meglio crede. In tutto il mondo il gay pride è vissuto come una festa, ma c’e tantissimo per cui lottare anche e siamo lontani dalla parità di diritti.
Chi non dovesse riconoscersi in quella manifestazione è libero di non parteciparvi, io ci vado con piacere e non vedo l’ora che arrivi. Per me è un momento (forse l’unico) in cui sento tutta la comunità unita.
Puoi quindi dire di sentirti appartenente alla cosiddetta “comunità lgbt+”? Oggi sì, e questo grazie a un episodio che otto anni fa mi ha letteralmente sconvolto. Avevo 30 anni, già esponevo. Partecipai a una mostra in cui mi veniva chiesto di declinare un tema su tre fronti diversi: pittura, fotografia e installazione. Io scelsi il matrimonio. Decisi di fotografare baci di coppie gay e non all’interno di chiese romane.
Inaspettatamente, prima dell’inaugurazione della mostra, ricevetti una diffida legale dal vicariato vaticano che mi intimava di non esporre l’opera. La notizia si diffuse improvvisamente in tutto il mondo, dalla Korea agli Usa.
Mi arrivarono valanghe di insulti e minacce, tanto che dovetti limitare l’uso dei miei social.
Mi auguravano la morte, mi invitavano a redimermi, di fare quelle stesse foto in una moschea semmai ne avessi avuto il coraggio. In realtà però la mia arte non cerca il sensazionalismo, non volevo provocare. Il giorno dell’inaugurazione decisi di esporre le mie foto totalmente coperte, oscurate con fogli neri.
In quell’occasione ricevetti solidarietà e sostegno soprattutto dai gay e mi sentii per la prima volta appartenente a una comunità che si batteva per gli stessi diritti, anche di libera espressione.
Nel 2014 fui invitato dal Leslie Lohman Museum di New York a esporle in formato gigante, più di due metri di altezza ciascuna nella loro sede a Soho. Fu una bella soddisfazione. Da allora non mi infastidisce più se mi definiscono “artista gay”, al massimo la ritengo una valutazione parziale. Un tempo mi sarei offeso.
Il tuo rapporto con la religione? Sono cresciuto a Siviglia, lì il sentimento religioso è molto forte. La Settimana Santa è una ricorrenza che coinvolge tutti a ogni livello, e la mia famiglia è da sempre molto credente.
Sono cresciuto con un’educazione e valori cattolici.
Amo tutt’ora tutta la ritualità sacra cristiana, le cerimonie, le messe in latino e tutto quanto faccia da cornice a questi riti, tuttavia oggi considero poco verosimile le cosiddette verità di fede.
Mi piacerebbe credere che esista qualcosa di superiore e di buono. Per mia fortuna, nonostante tutto non ho mai sofferto di conflitti interiori per la mia omosessualità, che vivo serenamente.
Torniamo alla pittura. Come hai iniziato a dipingere?
Vivendo a Siviglia ero circondato dall’arte sacra e da piccolo amavo riprodurre i soggetti sacri. Ho iniziato così…
C’è un artista del passato e uno del presente che non ami o che ritieni sopravvalutato? “Raffaello! Tra i contemporanei l’Abramovich, Hirst, Emin, mi fanno cagare!”
Credo che l’arte sia altro, che serva a elevare le persone, che debba esprimersi attraverso un talento palpabile e non pompata dietro le parole ruffiane di critici d’arte. Poi ovviamente c’è il mercato, che è croce e delizia. “Credo che il 99,9 % di quello che vediamo nel contemporaneo sia aria fritta.”
Userò una metafora biblica. Diluvio universale 2.0, puoi portare solo un quadro con te, quale? Ci pensa tanto. Poi risponde: “Guernica!” Ecco, Guernica è arte! Non ha bisogno di essere spiegata, arriva anche se non sai perché, anche se non hai studiato arte. Riunisce in sé tutta la potenza di Picasso e dell’arte stessa.
L’arte concettuale estremizza la lezione dadaista e di Duchamp contro ogni accademismo, tuttavia crea una degenerazione dell’arte stessa. Io credo che la gente possa e sappia distinguere un pezzo d’arte da un fake, no?
Credo che tu abbia molta fiducia nel genere umano.
C’è un artista contemporaneo che ami?
Sì, David Hockney, ormai è ottantenne ma è stato un artista completo, sempre in evoluzione. Nella sua pittura ci ritrovo sia la pop art che la pittura astratta americana, e la tradizione del realismo inglese, amo la sua pittura.
Nei tuoi quadri c’è un silenzio metafisico, un’intimità domestica che rimanda ai ritrattisti di inizio 900’ e non è certo priva di erotismo e solitudine, sbaglio? La solitudine è la mia quotidionità.
Lavoro in solitudine, ma accompagnato dalla mia musica, amo dipingere ascoltando Schubert.
Nella mia pittura non credo ci sia una “maniera” o uno “stile” definito, ma credo contenga un po’ di tutte le cose che ho più amato e studiato. Il barocco spagnolo, il 400′ italiano. Picasso, la pittura del 900′ fra le guerre, fino appunto a Hockney e la nuova pittura americana. Per fortuna c’è un grande ritorno alla pittura e ci sono tantissimi pittori giovani con molto successo, ed è molto bello.
E’ stato un lungo percorso di ricerca?
Ho 38 anni e ritengo che questa sia la fase della mia maturità. Ho attraversato negli anni vari periodi, e seppur le mie opere non raccontino direttamente di me, non celebrino il mio ego, esprimono il mio approccio alla vita nel tempo.
Quando sono venuto qui a Roma ad esempio ero affamato d’arte italiana e della voglia di farcela.
La mia non è una ricerca fatta di sofferenza, tipica di un clichè romantico che vuole l’artista dannato.
Io racconto, immortalo, cristallizzo un momento e in questo modo so di regalare a me e ai soggetti ritratti nei miei quadri un po’ di eternità.
Ora sto lavorando a nuovi progetti e vorrei provare a raccontare le mie città del cuore, come paesaggi metropolitani.
Facciamo un passo indietro. Il tuo primo ricordo legato al disegno?
Lo ricordo come fosse ieri, ero seduto in braccio a mia madre con carta e penna e disegnavo la strega Avería, era una strega di uno show per bambini spagnolo degli anni 80’: La bola de cristal.
La trasmissione era condotta da Alaska un’artista che nasceva come cantante punk e tutt’ora molto popolare in Spagna.
In quegli anni subito dopo il franchismo, la tv sperimentava, e quello show con quella strega mi piaceva moltissimo. Ho iniziato così
Il tuo sogno nel cassetto?
Andare a New York a “conquistarla” come feci appena ventenne arrivato a Roma.
Cosa avresti fatto se non avessi fatto il pittore?
Non so fare altro.